Per il dibattito nel GIAN

Contributo al progetto di sviluppo del GIAN verso le istituzioni scolastiche, enti locali, cooperative sociali, associazioni, sindacati e realtà attive nella promozione dell’educazione ambientale.

Premessa: la necessità di formulare proposte concrete volte a promuovere l’utilizzo delle nostre case da parte di istituzioni e realtà sociali, risponde all’esigenza, da tutti sentita, di trovare finalmente uno spazio all’interno del quale verificare la nostra capacità di rendere attuale l’ispirazione originaria che portò, nel 1895, alla fondazione della Naturfreunde Internationale a Vienna. Non solo, nasce anche dalla consapevolezza che è necessario trovare un ambito nel quale le nostre case siano in grado di avere un ruolo nella società che vada oltre l’accoglienza e la fruizione delle stesse da parte dei soci e delle loro famiglie. A più di quarant’anni dalla sua fondazione il GIAN, se vuole crescere in qualità e quantità deve avere: visione intellettuale e capacità di rispondere ai bisogni di organizzazioni complesse.

Possiamo partire da una domanda: esiste realmente nella società italiana, oggi, uno spazio per le nostre idee e per ciò che proponiamo? La risposta può essere positiva solo a partire dalla nostra volontà di condividere le esperienze che le case e le sezioni hanno fatto nel corso della loro storia. Al di là delle nostre idee, ciò che conta è quanto abbiamo lasciato nel tempo, su di noi e su tutti quelli che ci hanno incontrato. Certo le idee sono importanti, ma sono la premessa dell’azione ed è solo nella realtà pratica che possono dimostrare quanto incidono nella realtà e quanta è la loro forza.

Le case e le case-rifugio: la semplicità delle nostre strutture, la necessità di condividere gli spazi diurni e notturni (cucine e camerate), l’autogestione come pratica collettiva basata su una semplice regola: “In questa casa tutti sono pronti ad aiutarti, ma nessuno è al tuo servizio”; (è l’unico articolo del regolamento della casa di Rahnenhof nella Renania Palatinato una delle più grandi della Germania), può essere complicata per una mentalità e per uno stile di vita borghesi, ma è, e possiamo dirlo per esperienza, una cosa molto importante, bella e divertente per i giovani e soprattutto per i bambini. Nella nostra casa-rifugio di Saviore, come nei rifugi ed in una grande colonia che abbiamo gestito in passato, abbiamo sempre constatato quanto fosse importante ed emozionante per i bambini, sia che venissero in famiglia, sia che fossero organizzati in scolaresche e gruppi, l’uscita dal ristretto ambito familiare. Come entrano in casa vivono una sensazione di libertà tuffandosi sui letti e provando ad autogestirsi il proprio spazio, decidendo liberamente accanto a chi dormire, organizzando e sistemando le proprie cose. Le gite scolastiche, delle scuole medie inferiori e superiori, finiscono quasi sempre per privilegiare l’albergo e le camere sono singole o a due posti, con il risultato che durante tutta la notte gli insegnanti accompagnatori devono fare la spola a controllare movimenti di studenti che cercano “socializzazione”. Tenendo conto anche dei costi di una sistemazione alberghiera, la nostra proposta di autogestione è decisamente conveniente da tutti i punti di vista. La preparazione dei pasti, normalmente, viene affidata a personale volontario che accompagna i gruppi o ad insegnanti particolarmente volenterosi; la tavola con la disposizione di piatti e stoviglie, lo sgombero della stessa, il lavaggio seguente e la pulizia necessaria sono compiti svolti a turno dai ragazzi, come elemento di accrescimento della socialità e della responsabilità: “Mia mamma non ci crederebbe nemmeno se mi vedesse”, li sentiamo dire tra loro mentre sono al lavandino. Nella nostra esperienza a Saviore, che dura ormai da più di trent’anni, possiamo dire di non avere mai avuto episodi di vandalismo a carico di beni a disposizione di tutti, e men che meno forti tensioni o violenze tra i ragazzi, è quasi incredibile, ma siamo sicuri che ciò sia dovuto essenzialmente al clima che si crea quando l’autogestione è vera esperienza di condivisione. La stessa cosa vale anche per gruppi più difficili quali quelli composti da minori carcerati, adulti e donne provenienti da istituti di pena ed in prova proprio per verificarne le capacità di socializzazione ed autogestione. Chiaramente questi ultimi sono accompagnati e piuttosto strettamente osservati e controllati da educatori ed educatrici, ma anche in questi casi è possibile notare l’importanza di un’esperienza che chiamiamo autogestione della casa e che diventa qualcosa di più ricco e profondo. Molto simile è ciò che avviene con ospiti di cooperative sociali che operano nel campo del recupero da percorsi di tossicodipendenza; anche qui la sorveglianza da parte degli operatori è necessaria, ma in un clima più rilassato. La cosa più importante è eliminare dalla casa tutti gli alcolici (cosa che ovviamente è concordata con i responsabili).
Una delle esperienze più belle è quella che si fa con i ragazzi cosiddetti disabili, ragazzi e ragazze down o con ridotte abilità in vari campi, la loro sensibilità ci permette di vivere ogni volta in modo originale e nuovo tutte le attività che facciamo con scuole e gruppi, dai canti con tamburi e corni al lavoro manuale (ad esempio, piccoli telai per la costruzione degli acchiappasogni).

Ispirazione e fondamenti delle nostre attività: abbiamo sempre visto due sentimenti opposti negli ospiti della nostra casa-rifugio, al momento del loro primo arrivo a Saviore dell’Adamello: lo stupore e un senso di spaesamento. Stupore per l’imponenza e la bellezza della montagna che vedono per la prima volta e spaesamento per lo stesso motivo, imponenza e bellezza così inaspettate e lontane dalla vita della città.

Ricerca della relazione: possiamo sintetizzare così il succo dell’avventura che proponiamo ai nostri ospiti, iniziando dal respiro. Il primo modo per entrare in rapporto con la nuova situazione è ricordarci che respiriamo, fare entrare aria nei polmoni, riconoscerla come “soffio vitale”, o prana (così lo chiamano gli indiani inventori dello Yoga) e renderci consapevoli di quali sono i bisogni vitali dell’essere umano ogni giorno: un chilo di materia solida, due di liquidi e dodicimila litri di aria. Infatti possiamo vivere quaranta giorni senza mangiare, quattro giorni senza bere e quattro minuti senza respirare. Stabiliamo in questo modo una gerarchia che riguarda ogni giorno ed ogni momento della nostra vita. Da quel momento possiamo incontrare la montagna e nutrircene con tutti i sensi; noi riconosciamo lei facendola nostra e lei riconosce noi. E’ la nostra gratitudine a rendere possibile la relazione che continuerà con l’acqua, con le erbe e le piante, con le rocce, il cielo e la bellezza che cercheremo di cogliere in ogni momento.

Le culture indigene del mondo: “conosciamo la natura come l’uomo bianco sa leggere un libro”, questo ci dicono i nostri amici indigeni e questo constatiamo ad ogni passo che facciamo con loro. Non è una semplice conoscenza scientifica, anche se sono portatori di culture che sono state in grado di vivere per decine di migliaia di anni nei più vari ambienti naturali, senza comprometterne gli equilibri; è “scienza sacra”, come la definiscono: capacità, cioè, di concepire e relazionarsi con l’invisibile, con il mistero. E’ l’acquisizione, intellettuale e spirituale insieme, che è il silenzio a contenere il suono ed è il buio a contenere la luce.

Le culture indigene della montagna: La montagna è un ambiente conservativo così come lo sono tutti i luoghi isolati, lontani e nascosti. I versanti esposti a Nord mantengono più a lungo le essenze floristiche e botaniche e a Saviore abbiamo esempi di popolamenti vegetali risalenti all’ultima era glaciale del Wuerm (ad esempio la Trientalis europea primulacea, vero e proprio relitto glaciale, considerata estinta sulle Alpi per oltre novant’anni); alla conservazione delle specie vegetali ed animali, ha corrisposto l’espressione più caratteristica dell’essere umano, la simbologia e l’arte in tutte le sue forme. Per più di diecimila anni, infatti, le popolazioni che si sono succedute hanno lasciato simboli e segni incisi sulle rocce. Tornare alle origini, per noi, non è un esercizio sterile di conoscenza, è cercare l’inizio delle culture viventi oggi le quali, pur sottoposte a sconfitte e traumi, restano ancora vitali e ricche di potenzialità. Dagli usi tradizionali del mondo vegetale, fino alla capacità di affrontare le difficoltà e le asprezze della vita di montagna, tanti sono gli insegnamenti che si possono incontrare nella relazione con le popolazioni alpine.

MITAKUYE OYASIN-SARWAM SARWAT MACAM: in questi due mantra, uno dei Lakota e l’altro della più antica scuola shivaita, quella del Kashmir indiano, abbiamo la sintesi di tutto il nostro lavoro: hanno lo stesso significato: sto con tutte le mie relazioni, siamo un unico popolo, siamo fratelli e sorelle di tutte le cose: esseri umani, animali, vegetali, minerali, dell’acqua, delle stelle e del vento, delle nuvole e del sole, di ciò che è vivente e di ciò che, venuto prima di noi, ci ha permesso di vivere, come di tutto ciò che verrà. Riuscire a fare nostri, intimamente, questi concetti e viverli significa passare dal concepirci come individui a sentirci persone e vivere la relazione con tutte le cose ci permette di vincere ogni paura: questa condivisione ci permette di entrare nel regno della libertà. La natura vivente è il luogo ideale dove iniziare questo percorso e gli incontri con la fauna selvatica tipica delle Alpi, finalmente abbondante anche a Saviore, aiuta in questo percorso.

Italo da Saviore

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